L’olivicoltura italiana deve cambiare passo anche attraverso un profondo
rinnovamento dei suoi oliveti. Patrimonio storico che deve tornare a essere pienamente produttivo, recuperandolo dall’abbandono che anche in Regioni storicamente vocate alla massima qualità, come la Toscana, supera il 30%.
“In quattro o cinque anni, dopo una giusta potatura di riforma – ha spiegato Enrico Maria Lodolini, ricercatore Crea e coordinatore del progetto MOLTI - Miglioramento della produzione in oliveti tradizionali e intensivi - incrementando anche il reddito,
perché l’olivicoltore può sfruttare la piena
meccanizzazione della coltura offerta dalle moderne tecnologie.”
Il tutto con un occhio alla sostenibilità così premiante sul mercato oggi. L’uso di pratiche agroecologiche per la gestione conservativa del suolo contribuisce a ridurre fenomeni di erosione, incrementare la sostanza organica e la biodiversità,
sostenendo il recupero produttivo degli alberi e aumentando l’autonomia (riduzione input esterni) e la resilienza dell’agroecosistema oliveto.
Accanto a recupero alla produzione dell’esistente si possono mettere a dimora
anche impianti di oliveti ad alta densità con varietà italiane. “Non dobbiamo per forza importare in toto il modello spagnolo – ha spiegato Lodolini – ma possiamo utilizzare anche le nostre cultivar, con idonee potature selettive/semplificate
e differenziate per posizione sulla chioma e epoca di intervento.”
La riforma degli oliveti obsoleti in Italia coinvolge superfici olivetate estremamente vaste che oggi sono destinate all’abbandono. Il recupero di tali superfici, insieme a modelli differenziati di olivicoltura ad alta densità con varietà italiane
potrebbe dare un impulso utile a modificare in senso positivo il trend decrescente delle produzioni olivicole nazionali e puntare su produzioni con una forte caratterizzazione varietale e territoriale, favorendo quindi un modello di olivicoltura opposto a quello spagnolo che nel tempo si è rivelato perdente.